L' ETÀ CASSICA
Per Ventotene è accertata la presenza di materiale porto storico, rinvenuto circa quaranta anni fa in un terreno fra il cimitero ed il pendio occidentale dell'isola. Si trattava di reperti, per lo più ridotti a frustuli ceramici, relativi all'età del bronzo (sec. XVI-XVII a.C.).Non deve sorprendere la presenza di un insediamento, anche se evidentemente riferibile ad un ridotto gruppo di capanne, in questo punto dell'isola. Infatti come per Ponza, anche a Ventotene nella scelta dei luoghi per la frequentazione, in epoca protostorica, si prediligevano i punti a ridosso del ciglio roccioso (per ovvi motivi di maggiore difendibilità) ma non lontani dai punti di approdo e di facile sfruttamento del suolo.
Sempre in età antica l'isola di Ventotene viene chiamata ora Pandaria, ora Pandotira. Solo a partire dal Medioevo prende corpo il fenomeno della progressiva deformazione lessicale dell'originario nome dell'isola, fino a giungere all'attuale nome ``Ventotene``, che molto probabilmente deriva dal termine ``vento``. Dopo un lungo periodo di silenzio per tutta l'età repubblicana, durante la quale evidentemente l'isola risente del maggior sfruttamento di Ponza, Ventotene sale alla ribalta della cronaca a partire dallo scorcio del I sec. a.C. con la sua designazione a luogo di esilio, per vita dissoluta, di esponenti della famiglia imperiale. Spettò a Giulia il triste destino di inaugurare la serie di ospiti illustri dell'arcipelago pontino, sappiamo che nel 2 a.C. la figlia di Augusto fu relegata a Ventotene per violazione della lex iulia sulla moralizzazione pubblica, emanata da Augusto nel 18 a.C.
Sempre in età antica l'isola di Ventotene viene chiamata ora Pandaria, ora Pandotira. Solo a partire dal Medioevo prende corpo il fenomeno della progressiva deformazione lessicale dell'originario nome dell'isola, fino a giungere all'attuale nome ``Ventotene``, che molto probabilmente deriva dal termine ``vento``. Dopo un lungo periodo di silenzio per tutta l'età repubblicana, durante la quale evidentemente l'isola risente del maggior sfruttamento di Ponza, Ventotene sale alla ribalta della cronaca a partire dallo scorcio del I sec. a.C. con la sua designazione a luogo di esilio, per vita dissoluta, di esponenti della famiglia imperiale. Spettò a Giulia il triste destino di inaugurare la serie di ospiti illustri dell'arcipelago pontino, sappiamo che nel 2 a.C. la figlia di Augusto fu relegata a Ventotene per violazione della lex iulia sulla moralizzazione pubblica, emanata da Augusto nel 18 a.C.
LO SFUTTAMENTO DEL TERRITORIO
L'inizio dello sfruttamento edilizio dell'arcipelago può farsi risalire ai primissimi anni del regno di Augusto. Va tenuto presente che nel quadro dell'utilizzazione del suolo ai fini della realizzazione di ville residenziali, Ventotene offriva con la sua geomorfologia molto meno tormentata di quella di Ponza, un indubbio vantaggio. A ciò va aggiunto il particolare interesse che Augusto mostrò di avere, a partire dal 29 a.C., nei confronti dell'isola. La particolare posizione di Ventotene, a metà strada tra le coste laziali e campane e la sua conformazione topografica dovettero far cadere l'attenzione di Augusto, o di chi per lui, su quest'isola. Sta di fatto che già nel 2 a.C. Ventotene era in grado di ospitare esiliati di rango imperiale.
I MONUMENTI
I monumenti più significativi di Ventotene sono dati dalla grande villa (con il nucleo principale a Punta Eolo e padiglioni alla peschiera e complesso soprastante), dalle cisterne di alimentazione dell'acquedotto, dai resti (in via di totale depauperamento) della necropoli e del porto. Per quanto riguarda la cronologia dei monumenti, l'intera orditura topografica di Ventotene si può far risalire al momento di trapasso tra la Repubblica e l'Impero. Probabilmente di pari passo con la fine dell'uso della villa come sede di esiliati imperiali (avvenuta alla fine del I sec. d.C. con Domitilla) anche tutto il patrimonio isolano risentì di un calo di sfruttamento a livello di impianti residenziali, quanto meno ad opera dell'apparato imperiale. Venuta meno pertanto la ``necessità`` di una utilizzazione di Ventotene, e poi anche di Ponza, è molto probabile che, in analogia con quanto accaduto nelle ville della non lontana penisola sorrentina, anche per Ventotene le splendide dimore residenziali cessarono la loro funzione con la fine del II sec. d.C.La grandiosità delle strutture, sconsigliando, da un lato, la eventuale ristrutturazione integrale, poté, dall'altro, aver offerto lo spunto per una riutilizzazione parziale, cosa questa comunque verificatasi a partire dall'alto Medioevo.
IL PORTO ROMANO
Il porto è il risultato di una escavazione artificiale (ben 60.000 metri cubi asportati) del banco tufaceo che degradava a mare: ne è venuto fuori un bacino profondo in media m. 3 completamente circondato, e quindi protetto, dalla roccia. Un porto anomalo quindi, non tanto proteso in mare quanto tenacemente aggrappato alla terraferma, quasi timoroso e presago della tremenda forza dei marosi che l'avrebbero incessantemente flagellato per secoli. La sua realizzazione va posta nel quadro dello sfruttamento intensivo dell'isola, iniziatosi nel periodo di trapasso tra Repubblica e Impero e va comunque considerata già interamente compiuta nella prima età augustea, con l'annessione di Ventotene tra le proprietà imperiali. L'imboccatura del porto, rivolta ad Est, consente l'accesso anche in condizioni di tempo cattivo con venti di Maestrale e Libeccio; la conformazione interna del bacino, parallelo alla linea di costa in direzione Nord-Sud, offre una validissima protezione contro tutti i venti; solo i venti forti da SE provocano all'interno una leggera risacca, noiosa ma non sempre pericolosa. Il porto grazie alla sua felice collocazione, veniva a costituire il cardine dello sfruttamento residenziale di Ventotene, incentrato nella fronte orientale dell'isola (villa a Punta Eolo). Il porto doveva essere utilizzato principalmente da navi onerarie di piccola e media stazza, in grado di assicurare regolarmente, salvo eccezionali avverse condizioni metereologiche, i rifornimenti ed il periodico collegamento con la terraferma agli abitanti dell'isola. In caso di necessità il porto costituiva un valido ricovero anche per imbarcazioni di maggiori dimensioni fino a 30/35 m. di lunghezza. Dato che le navi da carico utilizzavano esclusivamente la vela quadra e non i remi, è probabile che le grandi bitte, ancor oggi visibili all'imboccatura del porto, servissero, oltre che a sbarrare l'accesso con l'aiuto di catene, che dovevano essere alloggiate in una retrostante piccola grotta scavata nel tufo, anche a facilitare l'ingresso, in caso di necessità, grazie all'ausilio di cime da traino a terra.
LA PESCHERIA ROMANA
Nella parte centrale del banco roccioso che si protende in mare, ai piedi dell'attuale faro, fanno ancora bella mostra di se i resti di una peschiera del tipo ex petra excisa, cioé scavata nella roccia, particolarmente raccomandata da Columella (il grande teorizzatore dell'itticoltura, vissuto nel I sec. d.C.) per l'efficacia produttiva. Le peschiere erano dotate sul fondo di canali per il ricambio delle acque, congegnati con una sorta di chiusura a saracinesca, così da impedire la dispersione in mare dei pesci; inoltre esistevano canali di collegamento tra le vasche attraverso i quali si facevano convogliare i pesci da uno scomparto all'altro. Oltre ad assicurare ai pesci un'acqua mai stagnante, si provvedeva anche a ricreare l'ambiente marino a loro congeniale mediante piccoli scogli coperti da alghe o anfratti ricavati nelle strutture e ancora, come a Ventotene, zone coperte e ombrose per proteggerli dal forte sole estivo.La realizzazione di peschiere rappresenta una delle caratteristiche del mondo romano, durante il I sec. a.C. negli ambienti di ceto sociale elevato si comincia a prediligere il pesce marino e le ville marittime della famiglia imperiale vengono dotate di peschiere sofisticate, mentre il pesce d'acqua dolce, continua ad essere apprezzato solo dalle classi povere. In particolare nella struttura di Ventotene, possiamo notare una tripartizione del complesso ittico. Partendo dalla costa abbiamo due vasche coperte nelle quali tra l'altro sfociavano i condotti di acqua dolce per la miscelazione con quella marina, in cui i pesci potevano rimanere al riparo da sole e dal moto ondoso; qui potevano anche, grazie ai ricettacoli sommersi, procedere alla deposizione delle uova per una tranquilla nidificazione. In queste vasche l'agibilità interna era assicurata, soprattutto per il personale di servizio, da una banchina risparmiata nel banco tufaceo, oggi a pelo d'acqua ma anticamente emergente, larga circa 1 m. Questi ambienti, come mostrano ancora delle tracce, erano decorati con intonaci e stucchi colorati. Segue poi un settore, quello centrale scoperto, caratterizzato da una grande vasca delimitata da una banchina, oggi sommersa, larga circa m. 1,50. La vasca era divisa in due da un diaframma in cui si aprivano due saracinesche. Nel vano meridionale era ricavata una orditura di murature circolari che delineavano concamerazioni nelle quali potevano circolare i pesci, guidati e obbligati nel percorso da una sapiente sistemazione di grate e paratie manovrabili dall'alto e fornite di fori calibrati per consentire il passaggio dell'acqua e nel contempo impedire la fuga dei pesci. Il settore più avanzato era costituito da un avancorpo, risparmiato nel banco tufaceo, che fungeva da frangiflutto per proteggere il vivaio dalle mareggiate. Era questo il settore in cui venivano ricavati i canali di comunicazione con il mare che consentivano il regolare cambio delle acque. Gli stessi canali dovevano a volte servire, con la miscelazione dell'acqua marina e quella dolce, ad attirare i pesci dal mare immettendoli direttamente nella peschiera. Venivano creati, a partire dalla fronte a mare, percorsi obbligati in cui attirare, con una dosata e crescente miscelazione con l'acqua dolce, i pesci cui, man mano avanzavano nella piscina, veniva impedita la fuga calando alle spalle le saracinesche.
LA PUNTA DI EOLO
La Villa di Punta Eolo
La villa , detta comunemente di Giulia dal nome della prima esiliata, si distende per oltre trecento metri di lunghezza e circa cento di larghezza, sul promontorio di Punta Eolo. Occorrerà solo un pò di attenzione per riconoscervi cortili, stanze, corridoi, giardini, cisterne, terme ecc., vale a dire tutto quell'insieme di elementi che costituivano l'intelaiatura della maestosa villa. Quasi ovunque regna sovrana l'opera reticolata, affiancata qua e là da strutture in laterizio fatte di sole tegole: è questo un indizio sicuro per la cronologia dell'impianto originario che andrà fissata alla prima età augustea. Tracce di rifacimenti con mattoni, con rozza muratura o addirittura con strutture di recupero, si vedranno un pò ovunque, soprattutto in quelle parti maggiormente esposte all'azione combinata del vento e dei marosi.
LE CISTERNE E L'ACQUEDOTTO
Al tempo dei romani l'approvvigionamento idrico veniva costantemente garantito dalla presenza, nelle zone abitate, di serbatoi in cui veniva convogliata, mediante vasche di raccolta e canali di immissione, l'acqua piovana. Il punto nevralgico del sistema di alimentazione di tutta l'isola è situato in posizione strategica e funzionale, quasi a metà dell'isola. Non potendo contare, contrariamente ad es. a Ponza, su di una sorgente in grado di soddisfare costantemente le richieste idriche, a Ventotene si fece ricorso alla istallazione di due enormi serbatoi, capaci di raccogliere direttamente le acque piovane e indirettamente quelle di filtrazione. Si crearono così due grandi contenitori nel lato meridionale dell'isola, così da poter captare e incanalare le acque di filtrazione provenienti dai displuvi a monte e nel contempo raccogliere, per la loro particolare strutturazione, quanta più acqua possibile durante le periodiche precipitazioni piovose. Ventotene, al contrario di Ponza, non poteva, e non può tuttora contare su una sorgente per l'approvvigionamento dell'acqua potabile. Quindi i Romani per sopperire alle necessità della Villa imperiale di Punta Eolo costruirono più o meno nella parte meridionale dell'isola due enormi cisterne per la raccolta delle acque piovane ma anche di quelle di filtrazione. La prima cisterna, detta ``dei carcerati`` si troverà a circa un chilometro da piazza Castello, sulla destra della via Ulivi. Il suo nome deriva dal fatto che, cessato il suo uso originario, la cisterna fu usata come luogo di ricovero per i forzati che dovevano costruire la Ventotene borbonica. Essa è un enorme serbatoio ricavato direttamente nel tufo circa 10 metri sotto il livello della campagna che comprende uno spiazzo di raccolta delle acque a cielo aperto su cui si aprono due gallerie comunicanti fra loro, coperte a volta ed utilizzate per la conservazione delle riserve. Le gallerie si allargano in tre corridoi per lato. Nella parete orientale del bacino aperto si concentravano i condotti di smistamento dell'acqua ( le fistulae se in piombo o tubuli se in cotto ). Cessato il suo uso come luogo di raccolta dell'acqua, la cisterna è diventata luogo di riparo per uomini ed animali, come è testimoniato dai molti graffiti e dipinti di ogni epoca che è possibile vedere dentro di essa. Proprio all'uso improprio di carcere si deve la costruzione dello sfiatatoio verso il piano di campagna, necessario ad aumentare la disponibilità di aria per i reclusi. La seconda cisterna si trova a circa 400 metri dalla prima, su una traversa a sinistra della via Ulivi ed è conosciuta come ``grotta Iacono``, dal nome di una delle famiglie che hanno colonizzato Ventotene inviate dai Borboni nel 1772. La cisterna è nota anche come cisterna di ``Villa Stefania`` dal nome della moglie di uno degli Iacono del sec. XVIII. L'accesso alla cisterna avviene nella estremità sud-occidentale attraverso una scalinata sormontata da un arco. (Credits www.ventotene.it)
I BORBONI E VENTOTENE
Dopo la caduta dell'impero romano, solo una timida presenza di monaci benedettini, poi sostituiti dai cistercensi, abita un'isola considerata improduttiva dai suoi molti padroni che si sono succeduti nel tempo. Soltanto nel 1731, con la morte dell'ultimo dei Farnese, l'isola passa piano piano sotto il dominio dei Borboni, che gettarono i presupposti per una sua nuova urbanizzazione. Nel 1768, sotto Ferdinando IV, si diede il via ad un progetto organico di urbanizzazione dell'isola affidato a due illustri tecnici: Antonio Winspeare e Francesco Carpi. La città borbonica si sviluppò intorno ai due edifici simbolo del potere: il Castello e la Chiesa di Santa Candida. Per entrambi furono pensate due belle vie di accesso: al castello ci si sarebbe arrivati tramite una via carrabile che, sovrastando l'antico camminamento romano, avrebbe percorso in salita ed in modo concentrico il Pozzillo per poi sbucare nella Piazza del Castello. Alla chiesa ci si sarebbe arrivati invece tramite una scenografica serie di rampe che dal Porto Romano avrebbe raggiunto la Piazza Chiesa. Attualmente il Castello è la sede del Municipio di Ventotene e del suo Museo Archeologico, ma la sua fisionomia originaria è stata alterata dalla sopraelevazione di due piani effettuata in epoca fascista per adattarlo meglio alla sua funzione di allora, che era di carcere, mentre la sua funzione originaria era quella di una fortezza come è testimoniato dal suo orientamento, che presenta uno ``spigolo`` alla marina di Cala Nave, per meglio resistere alle cannonate. Il piano seminterrato era adibito a cisterna e fognatura, il primo ad alloggio per i militari e il secondo ad alloggio per gli ufficiali e i funzionari del governo. La costruzione della chiesa iniziò il 13 Marzo 1769 e fù dedicata a Santa Candida il 22 Settembre 1774, sotto la gestione dei Cappuccini che nel 1792 la lasciarono ai secolari. Il complesso comprende la chiesa vera e propria al centro, di stile neoclassico. Alla sua sinistra c'era il convento, chiamato Cenobio od Ospizio. All'interno della chiesa sono degni di nota un quadro raffigurante una Madonna, forse del pittore Sebastiano Conca, e una bella statua lignea della Santa, che viene portata in processione durante la festa di Santa Candida. (Credits www.ventotene.it)
L'ISOLA DI SANTO STEFANO
“Nel XVIII secolo l'isola di Santo Stefano, detta anche “l'isola del diavolo” per le sue radici come rifugio incontestato dei pirati, viene scelta per la costruzione di un carcere sperimentale che segue le idee illuministe sui nuovi sistemi penitenziari. L'ergastolo fu costruito per volontà di Ferdinando IV di Borbone come ultimo atto della sistemazione urbanistica delle isole Pontine a prosecuzione delle imponenti opere di uso collettivo e sociale avviate da Carlo III a Napoli e nei territori del Regno. Il 26 settembre del 1795 si inaugura il carcere con l'invio di 200 detenuti, ad opera non ancora conclusa. L'artefice materiale della realizzazione del panottico è il Carpi, allievo del Vanvitelli, architetto preposto insieme a Winspeare alla colonizzazione nell'arcipelago. Nel 1797 si completa l'opera raggiungendo la capienza di 600 detenuti che vengono collocati in celle singole disposte un muro abitato curvato a ferro di cavallo. Il doppio recinto si comporta come un guscio che esclude l'esterno e si apre all'interno: bocche di lupo, finestre che vincolano lo sguardo al cielo, escludono totalmente la vista del mare, mentre il prospetto interno si trafora come un affaccio urbano alla piazza; un susseguirsi di logge e arconi in pietra che evocano le metafisiche piazze di De Chirico, eco di un'architettura classica e mediterranea tipica delle architetture di Ponza e Ventotene. Anteriormente il carcere risulta protetto e filtrato da un avancorpo rettangolare che funge da macchina di controllo/filtro dell'ingresso. Al centro della corte si innalza la cappella, simbolo cristiano di salvezza visibile da tutte le celle e nello stesso tempo la cappella ospita la postazione del guardiano sorvegliante che dal centro controlla con un unico sguardo tutti i detenuti. Novantanove celle rettangolari di 4,50 x 4,20 m, disposte su tre ordini che ripartiscono per classe e comportamento i prigionieri seguendo simbolicamente l'asse spirituale di redenzione: a pian terreno i ribelli, all'ultimo piano coloro i quali tengono una buona condotta. Negli anni il “confino” subisce una serie di manipolazioni, ampliamenti e modifiche destinate ad aumentare la capienza della struttura. Nel 1853 vengono aggiunti i laboratori per i detenuti ai lati dell'avancorpo dell'ingresso e intorno alla metà del XIX sec. Viene ristretto con la costruzione di un muraglione circolare il cortile centrale. La modifica importante viene attuata a metà del XX secolo con la riduzione del 50% della dimensione delle celle originali per ottenere il doppio della capienza. Ogni cella già di ridotte dimensioni viene divisa in due raggiungendo una dimensione di circa 2 x 2 m. Contemporaneamente si raddoppia il perimetro costruendo un anello esterno più basso dell'originale per ottenere celle di sicurezza addirittura prive di bucature.
MARE COME CONFINE
“Prima di ogni altra angheria c'era a Ventotene l'angheria della natura. Ci si figuri una prigione messa a disposizione di un tiranno crudele, di un Dio ringhioso e vendicativo. Le nude mura e il mare. Quel mare piatto, vuoto, infinito, che vi circonda come un anello insuperabile, catenaccio di una robustezza a tutta prova, sentinella mai sonnacchiosa. `{`...`}`Quello del mare diventa presto un fondo di silenzio.” (Alberto Jacometti, 1974, Ventotene, Marsilio, Padova.) Alberto Jacometti, liberato dal carcere di Santo Stefano, descrive così il paesaggio e il mare di Ventotene, un mare che assume la caratteristica di limite invalicabile, esteso all'infinito, di cinta muraria insuperabile che innesca un sentimento di perdente misurarsi con l'infinito, con la natura e con se stessi. Prima ancora del Panottico, è la stessa isola ad essere un carcere, “l'isola del Diavolo” la chiamano, per i reclusi a vita: lontana, aspra, indifferente, circondata da un mare infinito dove gli orizzonti si perdono; un mare amorfo, piatto che genera un silenzio e una pace che turbano e pesano, ancor di più se si pensa al Mediterraneo come crocevia antichissimo, dove da millenni tutto confluisce si fonde e si ricompone in un'unità originale.
ARCAICA MEMORIA
Cono vulcanico, aspra piattaforma circolare circondata dall'acqua, inaccessibile e austera allo sguardo, affascinante memoria storica e costante simbolo socio-politico, lo “scoglio” di Santo Stefano è basamento dell'edificio carcerario e traccia per la disposizione dell'intera colonia. Il Panopticon-Partenone domina, dall'alto, il deserto, la nudità della roccia a picco sul mare, la durezza del paesaggio, la piatta distesa d'acqua, in attesa. Privato della sua funzione, soggetto sottratto al tempo, assume in sé significati altri. Diviene Monumento alla memoria della punizione e nello stesso tempo, Simbolo del riscatto di chi ha lottato per cambiare. Severo nel suo aspetto esterno, il carcere rivolge l'ingresso a sud, dove l'isola è più alta e protetta e dà le spalle al mare escludendolo, divenendo isola artificiale esso stesso, perimetrato, introverso, concluso. Mediterraneo nel suo interno, ricrea con il cortile centrale a ferro di cavallo, la piazza; ripropone gli affacci delle strade di Ponza; dispone con ordine le funzioni private, pubbliche e amministrative come una macchina sociale, una monade autonoma che separa dallo spazio, dal tempo, dalla libertà. L'isola nel suo intero si esibisce come un'Acropoli. Su di essa gli oggetti architettonici si dispongono seguendo una logica morfologica legata al pendio naturale e secondo una logica di sicurezza legata ai possibili punti di fuga. L'ergastolo rappresenta il punto centrale e singolare. La visione di questi elementi non è mai diretta: l'attraversamento tangente crea contrasto tra l'attesa e la sorpresa. Le disarmonie degli edifici accessori, la diversa misura tra le parti, il frantumarsi della regola architettonica dello sguardo unico e totale, compongono uno spazio metafisico, fermo, sospeso; anch'esso in attesa.
SCELTA FONDATIVA
All'isola di Santo Stefano si giunge per mare da Ventotene. L'approdo più diretto, la Marinella, è quello che permette un più facile attracco e ne garantisce l'uso per la maggior parte dell'anno. Qui venivano lasciati i prigionieri e scaricate le merci; qui ancora oggi si trasportano i turisti. La porta d'ingresso all'isola-carcere segna con severità un limite, oltrepassato il quale, il cammino non aveva ritorno. La Marinella si presenta come un triste addio, come una banchina di un porto da dove non si riparte. Ad est, agli antipodi della Marinella, nascosta in una rientranza di roccia è ancora possibile invece bagnarsi e fare l'idromassaggio nella Vasca Giulia: un pianoro di basalto trasformato dai romani in un capolavoro di ingegneria idraulica costituito da cunicoli, dislivelli e pozze cilindriche che all'ingresso dell'onda trasformano l'acqua di mare in acqua curativa. Questo anch'esso luogo un tempo di solitaria prigionia dell'adultera Giulia, figlia di Augusto, mandata in esilio a Ventotene dallo stesso padre. Altri due approdi, tracciano come un cardo gli ingressi da nord e permettono di sfuggire ai capricci dei venti e garantiscono sempre lo scalo. A sud la scogliera lavica si innalza divenendo cinta muraria invalicabile che si confronta e si oppone perentoria alla dolce lingua di terra dell'isola di Ventotene. I tre approdi individuano i punti cardinali e l'asse fondativo dell'edificio borbonico segna una linea ideale che unisce il nord con la punta più alta di roccia a sud detta il “burrone” e lungo quest'asse morfologicamente determinato dall'incontro di due valli si dispongono gli edifici accessori della guardiania. Il decumano che idealmente collega Vasca Giulia alla Marinella, sembra essere suggerito dal luogo stesso: il terreno si ripiega in sé a formare un invito, una risalita spontanea, un segno naturale che unisce, che incontra e rafforza l'asse architettonico nord-sud. La forza e la bellezza illuministica del Panottico si staglia in un contesto ambientale privo di dinamicità. Il carcere è un oggetto astratto, una macchina che risponde alle sue logiche interne, un recinto abitato che sembra nascere dall'isola stessa come rafforzamento parallelo dei limiti naturali: il mare piatto e amorfo, l'aspra ripida scogliera, il muro di cinta muto e impenetrabile. “(Erika Bonacucina –Architetto- Idee per un Progetto per Santo Stefano” Il Carcere di santo Stefano è stato chiuso definitivamente il 2 febbraio 1965.